La Corte di Giustizia europea ha cancellato le regole nazionali di accesso alle professioni che consentivano ad alcuni Stati membri, tra i quali l’Italia, di bloccare la circolazione dei titoli professionali. La decisione (sentenza 17.07.2014, cause riunite 58/13 e 59/13), che sui media è passata quasi inosservata, fissa il principio che “se il cittadino di uno Stato membro sceglie di acquisire il titolo professionale in un altro Paese membro diverso da quello in cui risiede, per beneficiare di una normativa a lui più favorevole, ciò non consente, di per sé, di concludere nel senso della sussistenza di un abuso del diritto”. Secondo la Corte “le norme che si occupano, seppure nella Costituzione, di accesso alle professioni che certo, non incidono “sulle strutture fondamentali, politiche e costituzionali né sulle funzioni essenziali dello Stato membro di origine” non hanno alcun valore. Ne esce così ridimensionato il V° comma dell’art. 33 della Costituzione, che prevede l’esame di abilitazione all’esercizio professionale, che insieme all’art. 3 della Carta, secondo cui la disciplina dell’esame deve rispettare il principio dell’uguaglianza imponendo a tutti i cittadini le stesse difficoltà per accedere alle attività professionali, costituiva la trincea dietro la quale l’avvocatura italiana si è, per anni, arroccata per impedire la libera circolazione dei professionisti. Lo scontro tra resistenza ed adeguamento delle professioni al mercato ha prodotto una progressiva crisi di affidabilità delle professioni provocando il loro distacco dalla società civile. Ma l’Italia sembra non accorgersi di quanto il mondo sia cambiato tanto da affrontare la riforma del mercato del lavoro senza tener conto del lavoro intellettuale. Così i professionisti, sempre meno liberi e sempre più statalizzati, sono abbandonati in mezzo al guado, condannati all’ermafroditismo ed al ruolo subalterno di stampella dell’esecutivo.
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