Gli ordini come metafora

Le cause remote della crisi che affligge la professione seguono un filo logico che unisce tutti i settori dell’economia italiana. Se con 240.000 iscritti all’albo forense importiamo consulenza legale, se non esiste la meritocrazia, se la burocrazia è pletorica e inefficiente, se

la culla del diritto ne è diventata la bara, se ogni legge che entra in Parlamento ne esce finendo col dare più potere a quelli cui avrebbe voluto ridurlo. Se, cioè, la vita italiana è costellata da tanti scandali che si ripropongono con ciclica periodicità e con ossessionante ripetitività, non può trattarsi di vicende svincolate tra loro ma deve ragionevolmente ritenersi che vi sia una radice comune che trascende i singoli «orticelli». La professione forense, quindi, per la sua strategicità, costituisce la metafora ideale per leggere le inefficienze del Paese e per capire i meccanismi e la difesa delle «specificità» in un mondo in cui ogni attività acquisisce valore se, e nella misura in cui, contribuisce alla crescita complessiva del sistema. Attraverso l’ordine forense si leggono le ragioni della crisi e i motivi che condannano l’Italia all’immobilismo.

Forse il peccato originale può rinvenirsi nell’innesto del collettivismo marxista nell’impianto corporativo fascista, da cui è nata quella concezione «organicistica» della società che condanna tutti a un’appartenenza, quel modello di sviluppo che, pur condannando i giovani all’emarginazione, viene impropriamente definito «sociale». Dalla concezione verticistica della società sono nate le categorie che imprigionano l’individuo, le imprese e le attività dentro «gabbie» all’interno delle quali la volontà del singolo si annacqua e si disperde. Ogni categoria cerca di accaparrarsi la maggior quota possibile di sovranità per gestirla a vantaggio della propria consorteria ed a spese della collettività. Man mano che il numero e il peso delle categorie aumenta si riducono gli spazi di libertà dell’individuo e di manovra della politica che, pur mantenendo l’arma legislativa, è schiacciata dal peso delle categorie ed è costretta, a subire il ricatto elettorale.

Lo Stato, quindi, sostituisce l’accordo con le categorie all’interesse generale per cui, quando la legittimazione a governare scaturisce dall’assenso delle categorie e non dal consenso elettorale, concertazione e corporativismo coincidono. Il cittadino vale secondo il peso che la corporazione di cui fa parte è in grado di esercitare per cui i «privi di appartenenza» non hanno alcun potere contrattuale e sono costretti a cercarsi un «padrino» se non vogliono restare esclusi per sempre.

Allo stato, quindi, ridimensionare i poteri di una sola categoria sarebbe ingiusto, punitivo e inutile. Infatti, la riduzione di costi per cittadini e imprese è esigua se si tolgono i privilegi ad un singolo ordine ma diventa consistente se riferita a tutti. Quindi, solo con un colpo netto e deciso è possibile spezzare la ragnatela corporativa, liberare la politica e rimettere al centro l’individuo. Il Governo avrebbe dovuto, a mio avviso, presentarsi in Parlamento con un pacchetto di proposte sul quale chiedere la fiducia, pronto a dimettersi se non l’avesse ottenuta. Invece il blitz non c’è stato e se Monti pensa di spuntarla con la competenza e la saggezza si accorgerà presto che gli effetti di quelle riforme, poche e contrattate, che il Governo è riuscito o riuscirà a realizzare, saranno facilmente neutralizzati dai professionisti dell’immobilismo.

 

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