Decoro della professione e lotta per la sopravvivenza

Se il potere appartiene a chi non ha paura di perderlo allora bisogna riconoscere che l’attuale esecutivo non ne ha molto. Eppure il discredito della politica e dei partiti lasciavano pensare che finalmente si potessero iniettare, in un sistema asfittico, massicce dosi di concorrenza, tutelare le maggioranze silenziose e liberare l’individuo dalle categorie.L’entusiasmo iniziale scema e riemerge la concertazione, attraverso la quale le corporazioni ritrovano legittimazione e diritto di veto: non si esce dal feudalesimo ma, forse, sarà eliminato qualche eccessivo bizantinismo.  Si ritinteggia la facciata dell’edificio e si lucidano gli ottoni lasciando, però, inalterata la mappa dei poteri consolidati che garantisce il blocco del consenso: curando gli effetti senza incidere sulle cause il male finirà col riproporsi e con maggiore virulenza. Occorre molto coraggio, ma chi non lo ha non può darselo, per dipanare l’intricato groviglio di interessi e di collusioni, all’interno del quale ci si muove solo passando per il vertice del gruppo di appartenenza. Anche chi, come l’autorevole editorialista di una storica testata fedele al detto che 10.000, peraltro obbligati ad iscriversi, fanno una massa storica, ha invitato solo i rappresentanti delle professioni a formulare proposte escludendo dal dibattito i portatori di idee diverse. Quindi, larga parte degli intellettuali, rinunciando al suo ruolo super partes, si è trasformata in una cinghia di trasmissione di interessi corporativi. L’avvocatura, ad esempio, contesta l’abrogazione delle tariffe, i soci di capitale negli studi, la chiusura dei “Tribunali minori”, l’accorpamento degli uffici del Giudice di Pace e l’obbligatorietà della conciliazione per mantenere il suo ruolo a cavallo tra pubblico e privato.  Il quale garantisce ai vertici l’inamovibilità, agli iscritti la possibilità di mediare alle spalle di cittadini e imprese e alla politica, che dispone dell’arma legislativa, di ottenere l’aggregazione preventiva del consenso. La tutela della collettività e l’interesse pubblico generale sono solo pretesti per giustificare l’interferenza della politica anche nel mondo delle professioni: sta proprio nell’interferenza della politica nell’economia la radice di tutti i mali che affliggono il Paese.
Con 240.000 iscritti, un terzo dei quali opera senza uno studio proprio e lotta per la sopravvivenza, l’avvocatura pretende di mantenere le tariffe come se non fosse noto che da anni gli avvocati non solo non percepiscono acconti ma, addirittura, anticipano le spese pur di avere il mandato. In tale contesto non solo supera la soglia del ridicolo enfatizzare “la dignità e il decoro della professione” ma è da irresponsabili demonizzare il profitto. Una riforma che voglia cambiare il volto del Paese deve passare per assimilazione dell’esercizio professionale all’attività d’impresa e nella sottrazione agli ordini del monopolio della rappresentanza delle rispettive categorie. I bizantinismi legislativi si annidano nei tavoli di concertazione e nelle soluzioni “cerchiobottiste” mentre sarebbe urgente un radicalismo decisorio che impedisca alle categorie di riorganizzarsi e coalizzarsi.
E’ di recente entrata in vigore in Inghilterra la legge che consente l’esercizio professionale attraverso società il cui capitale è interamente detenuto da non professionisti ed è in procinto di essere applicata la cd “Tesco Law” che consente alle catene della grande distribuzione di offrire al loro interno i servizi legali. Senza dubbio i neoiscritti non starebbero a sottilizzare sul committente, outlet o società, ma sarebbero felici se potessero maturare esperienza e guadagnare sia pure in un supermarket. Ma l’esecutivo predilige i pochi organizzati ai molti allo stato brado costringendo questi ultimi a viaggiare in una metropolitana sotterranea, le cui vie d’uscita sono ostruite dal corporativismo. E poi parlano di futuro….
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