La Repubblica italiana non è fondata sul lavoro ma sulla rendita, sul conflitto d’interessi e sulle corporazioni. Un Paese in cui la dinastia conta “non solo per accedere ad una cattedra universitaria ma anche per un portierato, un’edicola o una tabaccheria. Siamo un Paese immobile in cui anche gli uomini nuovi sono immobiliaristi. Tutte le attività, eufemisticamente definite libere operano a circuito chiuso con un albo, un ordine, a volte una loro polizia (postale, ferroviaria, forestale), propri codici di disciplina, una giurisdizione propria e propri giudici per amministrarla. Chi non ha un albo cerca di procurarsi un surrogato, sia pur di rango inferiore, non per migliorare la qualità del servizio ma per recintare un settore economico e definire abusivi gli esclusi. In un Parlamento sempre pronto ad allargare l’ombrello pubblico è stata formulata persino la proposto di istituire l’albo «vetro pulito» con tariffe prestabilite e semafori assegnati a tutela, manco a dirlo, degli automobilisti. Banche, scuola, università, professioni, pubblico impiego, sanità ed ogni attività, compreso il volontariato, che può produrre denaro o clientele viene “attratta” nell’orbita statale da una classe politica sempre pronta a cedere interi settori economici pur di garantirsi l’inamovibilità. Non può esistere il mercato se le attività economiche sono consegnate allo sfruttamento delle corporazioni, o sono paralizzate da norme, regolamenti, autorizzazioni, licenze, concessioni, proroghe e deroghe attraverso le quali la politica si colloca al centro della ragnatela. L’assenza di mercato favorisce lo intreccio tra politica, giustizia, imprenditori, banchieri, sindacati, associazioni di categoria, ordini professionali ed associazioni che dividono con i partiti il potere ai danni dell’individuo. I conflitti d’interesse sono tanto frequenti che nessuno fa più caso ai sindacalisti che hanno in tasca la tessera di partito o agli avvocati che come presidenti di commissione parlamentare propongono le leggi, come parlamentari concorrono alla loro approvazione e come professionisti ne chiedono l’applicazione avanti ai Tribunali. Gli stessi partiti che hanno condotto il Paese nel vicolo cieco in cui tutte le attività per essere esercitate hanno bisogno di essere giuridicamente regolamentate e politicamente protette, si propongono come artefici del cambiamento. Destra e sinistra invocano l’altrui senso di responsabilità e per coprire vecchie magagne presentano volti anagraficamente nuovi ma allevati nel brodo culturale dalle collaudate nomenclature nella logica dell’apparato. Tutti, quindi, alla ricerca della “foglia di fico”, di qualcuno formalmente fuori dai giochi che, o per ambizione personale o credendo di mettersi al servizio del Paese, spende una credibilità conquistata a fatica per consentire a chi ha portato il Paese al disastro, di restare a galla.
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