Le Corporazioni e l’impiego delle risorse

4.545 notai si spartiscono il mercato delle compravendite immobiliari, 16.246 farmacie impediscono l’apertura di nuovi esercizi, ostacolano la vendita dei prodotti fuori dai loro locali e rivendicano il diritto di gestire la salute degli abitanti di una fetta di territorio mentre il Paese col più largo numero di avvocati in Europa non solo non è presente all’estero ma importa, addirittura, consulenza legale. Questa è l’Italia delle corporazioni in cui il cittadino viene stritolato da una macchina costruita per proteggerlo. Ma non solo. L’ evasione al 55%, il debito pubblico al di sopra dei 2.100 miliardi di euro, gli investimenti stranieri in Italia passati da 34 a 10 miliardi (dati 20.08.2013), il lavoro sommerso per 272 miliardi di euro pari al 17,47% del Pil, la disoccupazione giovanile al 41,3%, la pressione fiscale al 54%, la spesa pubblica a 197 miliardi di euro, i 3,5 milioni di disoccupati, la dilagante corruzione non sono, come la stampa li dipinge e li racconta, fenomeni slegati ma conseguenti l’uno dall’altro, anelli di una catena che imprigiona il Paese e che si arricchisce quotidianamente di nuovi elementi. La fusione del collettivismo marxista con il corporativismo fascista ha generato un modello sociale di sviluppo che, penalizzando le libertà individuali, condanna tutti ad un’appartenenza: l’individuo vale e conta se ed in quanto affiliato, per cui i singoli, i cd cani sciolti, sono privi di rappresentanza.  C’è, però, una particolarità sulla quale nessuna Autorità ha cercato di far luce. Il contributo, imposto per legge ed obbligatorio per esercitare l’attività per la quale si è studiato è un aiuto che lo Stato impone al cittadino di versare in sua vece. L’ordine che impone il contributo è, quindi, un ente pubblico e, come tale, deve controllarne l’impiego altrimenti l’iscritto è costretto a corrispondere un pedaggio per finanziare attività che non condivide. L’obbligatorietà imporrebbe un controllo pubblico sugli impieghi delle somme prelevate.

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