Quando negli anni ’90 l’emergere delle nuove tecnologie ha cominciato a sgretolare il sistema di inquadramento professionale i nostri rappresentanti, invece di battersi per adeguare le modalità di esercizio alle nuove esigenze del mercato, hanno tollerato la mancanza di infrastrutture ed hanno lasciato frantumare il sistema guardandosi bene dal mettere a disposizione della società il proprio patrimonio di cultura giuridica senza intenti corporativi e dal perseguito l’equilibrio sociale attraverso il diritto, praticando un certo servilismo nei confronti della politica alla quale hanno chiesto come favori quanto avrebbero dovuto rivendicare come diritti. Larga parte di quanti hanno aspirato a guidare l’avvocatura sono personaggi in cerca d’autore più preoccupati della loro “visibilità” che del futuro della professione. Hanno, quindi, sbattuto la porta in faccia a quanti non erano disposti a seguirli nelle loro battaglie di retroguardia prevedendo la mercantilizzazione della professione e la sua assimilazione all’impresa Non sono stati i titoli tossici americani o il fallimento della Lehman Brothers, o almeno non solo loro, la causa del crollo dei professionisti ma l’intransigente difesa di un ruolo e di una specificità attribuito all’ordine forense dalla Costituzione. La quale, pur richiamata dal Presidente della Repubblica e da ogni Ministro della giustizia, compreso l’attuale, in nessuna sua parte cita l’avvocatura. Il “diritto di difesa” non deve necessariamente essere esercitato attraverso un iscritto all’albo forense anzi se ne dovrebbe desumere il contrario ove si tenesse conto che non è necessario alcuna iscrizione per difendere un imputato avanti il Tribunale penale internazionale de L’Aia. A chi ha la responsabilità di guidare l’avvocatura chiedo, quindi, di affrontare coraggiosamente il problema, separando nettamente l’albo dalla politica, e di rinunciare ad un ruolo pubblico che, paralizzando la categoria, offre, in cambio, contiguità, visibilità solo ai rappresentanti.
