La professione legale non è più un’arte liberale ma un’attività economica e, come tale, deve adeguare il modello organizzativo e le strutture alle esigenze del mercato. Si è, da tempo, infatti, sviluppato un mercato delle regole, in cui il diritto è una merce a disposizione dell’utente, uno strumento acquistabile dalle imprese in modo non diverso da qualsiasi altra forma di competenza. Già la legge newyorkese, risalente al 1970, ammetteva la possibilità di esercitare la professione forense, attraverso società di capitali con i vantaggi fiscali delle società commerciali e le agevolazioni a queste riservate. In Olanda una legge del 1986 ammetteva le società professionali e prevedeva la possibilità che abbiano al loro interno professionisti stranieri. Le professioni sono, quindi, assimilate alle attività commerciali e assoggettate alla normativa antitrust. La Corte Suprema Federale ha stabilito che la fissazione di tariffe viola la concorrenza e che la pubblicità degli avvocati è una forma di espressione commerciale tutelata, in quanto manifestazione del pensiero, dal I° Emendamento della Costituzione Americana. Gli avvocati, “al pari delle altre categorie professionali hanno il diritto di pubblicizzare la propria attività a scopo commerciale ciò in particolare quando serve gli interessi della società fornendo informazioni importanti riguardo a problemi significativi o quando fa conoscere al pubblico la disponibilità, la natura e i costi di prodotti e servizi, svolgendo così un ruolo indispensabile nella distribuzione delle risorse in un sistema di libera iniziativa”. Peraltro il divieto di pubblicizzare la propria attività, più che limitare il diritto dell’avvocato, alla libertà di espressione, impedisce il libero flusso di informazioni commerciali e confina i cittadini nell’ignoranza, contrastando con un pubblico interesse e con un precipuo diritto della comunità ad essere informata quale presupposto per la formazione della pubblica opinione. E’ normale, quindi, che sia consentito ad ogni professionista di ricorrere anche alla pubblicità comparativa, purché non contenga :”insulti o affermazioni lesive dell’immagine e della reputazione altrui, non sia ingannevole e non inciti a commettere reati”. Tutti i Paesi hanno preso atto dei cambiamenti intervenuti nella società e, mentre favoriscono la ricerca di comuni parametri di riferimento per misurare le capacità che l’esercente ogni singola professione deve possedere per essere riconoscibile dal mercato, stanno smantellando le strutture corporative che impediscono l’emergere della professionalità. Solo in Italia, nel terzo millennio, sopravvive l’equivoco di strutture aggrappate alla qualifica di enti pubblici non economici, dotati di autonomia patrimoniale, finanziaria e autoorganizzativa, deputate a tutelare sia gli interessi degli iscritti che quelli della collettività in una commistione fra funzione privata, a vantaggio della categoria, e funzione pubblica a garanzia della collettività. Il tutto condito in salsa paternalistica interessata a mantenere il cittadino in uno stato di perenne asimmetria.
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